MEMORIE DI ARTISTA RITRATTO DI SAMONÀ
25/03/2010
Inquadrato dalla macchina da presa in postazione fissa, Pupino Samonà percorre avantie indietro lo stretto corridoio della sua nuova abitazione palermitana, la città dove è tornato a vivere a distanza di oltre quarant’ anni dal suo trasferimento a Roma; sul pavimento, rivolti verso la parete, alcuni dipinti che nel corso del film verranno girati gradualmente, come seguendo il precisarsi dei ricordi. È lento, il racconto con cui Samonà ripercorre la sua giovinezza palermitana, la memoria procede in modo talvolta incespicante, faticoso, così che quell’ andirivieni claustrofobico sembra dipanare a tentoni il filo della memoria da Palermo a Roma, e da Roma nuovamente in Sicilia. Comincia così, il film (viene presentato domani alle 21 all’ Auditorium della Rai in viale Strasburgo) che Nosrat Panahi Nejad ha dedicato a Samonà (1925 – 2007), aggiungendo un ulteriore tassello a quella ricostruzione – rievocazione di una lunga stagione culturale altrimenti destinata alla dissipazione e all’ oblio. Anche se, rispetto agli altri personaggi raccontati nell’ arco ormai di un quindicennio (da Michele Perriera a Anselmo Calaciura, da Franco Scaldati a Federico Incardona, da Eugenio Bronzetti a Antonio Pizzuto), Samonà ha avuto con la sua città natale rapporti intermittenti, conclusi poi dalla scelta, sorprendente per molti versi, di ritornare nel 2005, ormai ottantenne. Come sempre, Nosrat sceglie per sé una posizione apparentemente laterale, lasciando che sia il protagonistaa raccontarsiea fare emergere quasi per frammenti nomi, episodi, circostanze:i maestri della pittura palermitana dell’ immediato dopoguerra, l’ amico Bruno Caruso con cui, alla Biennale di Venezia del 1948, scopre la grande pittura europea del Novecento, Topazia Alliata, già pittrice vicina a Guttuso e al Gruppo dei Quattro nella Palermo degli anni Trenta e poi, a Roma moglie di Fosco Maraini, amica e curatrice delle prime mostre di Samonà; e infine Emilio Villa, figura di assoluto rilievo della critica d’ arte italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la cui prosa irta di vertigine linguistiche offre alcune letture imprescindibili dell’ opera dell’ artista. Inquadrature e scene, nel frattempo, sono mutate e immesse in un percorso circolare di ripetizioni: Samonàè seduto al tavolo, immobile sotto una lampada, con le spirali della sigaretta che si levano nella stanza, oppure al lavoro nello studio ricavato da una dependance nel grande terrazzo circondato da caseggiati anonimi. Lo vediamo mostrare le forme adoperate per le sue esplosioni ed espansioni,i suoi abissi di energie che costituiscono il florilegio di titoli dei suoi dipinti; sentiamo il suono dell’ aerografo, la pittura a spruzzo appresa all’ inizio degli anni Cinquanta che lo convinse a deporre gli strumenti tradizionali di spatole e pennelli. Il fine era una imagerie capace di cogliere i ritmi che il pensiero scientifico scopriva nella dinamica dell’ universo; la grammatica adottata un repertorio di ellissi e parabole (cicli e cicloidi, li definiva lo stesso Samonà), vortici e spirali apprese dal modello futurista, in particolare da Giacomo Balla, ma con diramazioni in tanta parte della tradizione delle avanguardie storiche, da Delaunay a Malevic, nel sogno di un punto di giunzione tra le possibilità aperte dalla tecnologia e l’ aspirazione a una spiritualità smaterializzata, assoluta. Termini dibattuti, per restare in Italia, da una direzione di ricerca che da Fontana giunge sino a Piero Manzoni e a un artista che presenta alcuni singolari punti di tangenza con Samonà come Francesco Lo Savio. Quelle parabole, quelle ellissi, quelle rifrazioni e irradiazioni di luce, ritornano anche in forma di citazione nei giochi con cui Nosrat Panahi Nejad sovrappone lenti e obiettivi alla scena e al volto dell’ artista, inquadrandolo in modo analogo ai ritratti che Samonà ha realizzato per il Memoriale delle vittime italiane di Auschwitz, la sua opera forse più singolare. Per quell’ impresa realizzata tra il 1978 e il 1980 Samonà – mentore il poeta Nelo Risi – dovette infatti rinunciare al suo lessico astratto, e calarsi in una dimensione figurativa che aveva abbandonato subito dopo gli esordi, adottandola inoltre ad una narrazione per immagini che dagli inizi del fascismo conduceva all’ insediarsi della dittatura e alle vittime del regime, e quindi dalla guerra alla shoah. Ma quei vortici, quei cicli e cicloidi, l’ architetto Lodovico Belgiojoso li adoperò per il tunnel ad angolo del Memoriale, una struttura avvolgente che il visitatore percorre accompagnato dalla musica di Luigi Nono e dalla pittura di Samonà disposta a nastro. Nella parte conclusiva del filmato, i bozzetti del Memoriale vengono tirati fuori dalle cartelle, disegnie colori si intrecciano alle parole con cui il pittore ripercorre l’ accostarsia quella tragedia storica e la scelta di misurarsi con una iconografia (filmati, fotografie) sedimentata nella memoria nostra e del nostro tempo. Pensare che c’ è chi propone di smantellarlo, quel Memoriale, come fosse soltanto la manifestazione episodica del gusto dell’ epoca, e non un momento di confronto, serrato e necessario, con la coscienza del Novecento.