Antonio Pizzuto Parla di Antonio Pizzuto
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I: le incisioni sul nastro
Dopo la pubblicazione dei miei primi dieci volumi sono obbligato a rinunciare a produzioni letterarie fondate sulla tecnologia della mano. Perché la mia mano non mi ubbidisce più. Ne io sono a sufficienza come energia a disposizione.
Allora poiché la pubblicazione in questi dieci primi volumi non esaurisce minimamente le mie possibilità intellettuali e io intendo, se Dio mi dà questa grazia, intendo a dare fino alle ultime possibilità, sono costretto a richiedere a un nuovo mezzo di creazione letteraria. Questo mezzo di creazione letteraria è quello dell’edizione per gli incisi, per le incisioni sul nastro. Nasce così una nuova attività letteraria che è assolutamente incomparabile con quella precedente. Perché questi libri non sono ne registrazioni ne esposizioni di fatterelli più o meno storici. Sono una espressione immediata e diretta dello spirito. E lo spirito è un fatto e non è un ipotesi come può essere della del… dei fenomeni della storia. Lo spirito è un fatto. Lo spirito afferma delle cose che non avremmo mai il modo di potere riscontrare per intero. Ma sono cose possibili, sono l’arte mia nuova. La quale ripeto viene sottrarsi a tutta le forme editoriali che sono state concepite prima d’ora. Punto e basta.
Antonio Pizzuto
II: Lettura
Cobra
Maggioletto falotico, sempre inattesi; or da plancia l’ordine: spegnere plurilustrali caldaie, serpeggiarvi dentro cedevoli negre crepe cieca sgusciante in delirio scudata bifida naia. Springhi orbidi stimoli, impulsi nell’imperscrutabile vallo, cedui gli scempi cui altri sopravvenienti, da fulgide volta volta a darsi, incorporee fosforescenze.
Antonio Pizzuto, Cobra, XLIV , da Ultime e Penultime, pag. 293,Il Saggiatore, 1978
III: io sono agli antipodi di Proust, di Joyce
I libri che io ho scritto non sono mai stati registrazioni donde io sono agli antipodi di Proust, di Joyce. Niente registrare. Non è più niente, non è più registrazione. E’ l’essere… che io comincio fare altro. Si tratta di questo: se io riesco a fissare uno dietro l’altro tutte queste impressioni, io non torno affatto al libro all’antico, non torno perché a quello non ci torna mai più nessuno, al libro all’antico. Il libro con il verbo è finito per sempre. Non è che domani mi possono rimproverare. Questo è il punto bello! Sai! Nessuno mi può rimproverare e alla fine non mi possono provare documenti o altro… come si chiama per potere tornare all’antico. No! Assolutamente no! La novità assoluta è proprio questa. Ed e un colpo che annienta tutte le critiche!
Antonio Pizzuto
(1)Nota dell’autore: Dopo le riprese effettuate a casa romana dello scrittore per il mio documentario dedicato a Sur le pont d’Avignon di Antonio Pizzuto, con Maria abbiamo trovato, chiusi in un armadio, alcuni audio nastri incisi nel maggio 1975. Le condizioni in cui abbiamo trovato queste audio cassette non prometteva un granché. L’effetto del tempo/obblio aveva reso quasi o del tutto inutilizzabile il contenuto di una buona parte. Tutte le incisioni erano della durata di 60 o 90 minuti e di marca BASF e avevano la fisionomia di una registrazione di tipo “casalinga” realizzate soprattutto per divertimento. Dalle voci registrate risultavano presenti oltre lo scrittore e la moglie , Maria e il signor Maurizio Lupo, il giovane vicino di casa che frequentava lo scrittore e soprattutto era colui che disponeva di un registratore portatile.Tra queste audio cassette ho trovato, dopo un difficile restauro, due cassette sulle quali erano registrate due importanti dichiarazioni di Antonio Pizzuto: la prima riguardava l’ edizione per l’ incisione, e quindi il superamento dell’ editoria basata sulla tecnologia della mano e, la seconda metteva in evidenza l’opinione dello scrittore sulla scrittura di Proust e di Joyce e, alla fine Pizzuto proponeva con la sua voce la lettura di Cobra, XLIV , da Ultime e Penultime, pag. 293,Il Saggiatore, 1978. Tutti questi brani poi, sono messi all’interno del mio video documentario dedicato a Sur le pont d’Avignon le cui protagoniste sono Giovanna e Maria Pizzuto. Dal quale ho estratto questo brano rendendolo autonomo.
Nosrat Pananhi Nejad
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Qui in seguito riporto cinque testi di carattere teorico scritti
da Antonio Pizzuto e pubblicati in diversi liberi e riviste tra gli anni 1960-1970
Antonio Pizzuto
Scritti teorici
Otto rinunzie e un proposito
Vedutine circa la narrativa
Sintassi nominale
Note su una nuova estetica
Impopolarità di Strawinsky
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1
* otto rinunzie e un proposito
1) La rinunzia alla unità narrativa, all’unità di azione, alle quali si sostituisce un libero lirismo.
2) La rinunzia allo psicologismo e quindi, a uno studio dei personaggi.
3) La rinunzia alla presentazione di un ambiente, di un mondo determinato e di conseguenza, la rinunzia
a un colore fondamentale e dominante.
4) La rinunzia a ogni tesi particolare.
5) La rinunzia a considerare la realtà da un punto di vista meramente sensibile.
6) La rinunzia a fare letteratura erotica.
7) La rinunzia a limitare la narrazione nel tempo e nello spazio.
8) La rinunzia a seguire una o altra formula determinata.
9) Proposito: Il proposito di realizzare una nuova espressione artistica in sostituzione del Romanzo. Per rendere più agevole la comprensione di queste nuove idee, esemplarmente, questo lavoro si presenta nella forma relativamente libera di una Sinfonia musicale, coi suoi quattro tempi discontinui tra loro, ma legati insieme dalla sintesi della inspirazione. Questa, si svolge anche fino a stati puramente fantastici, lirici e mitici, originali; i quali, non servono soltanto come mezzi espressivi, ma sono essi tessi espressione ultime e diretta della sensibilità di un artista.
* Otto rinunzie e un proposito, scritto nel 1927 da Antonio Pizzuto, messo in luce da Maria Pizzuto: (Questi i principi ai quali inspirarsi: Martin Po sinfonia musicale), per la prima volta nella storia letteraria della narrativa pizzutiana nel contributo Le origini di Antonio Pizzuto, sul <<Poliorama 83>> numero unico della rassegna culturale a cura del prof. Aldo Rossi. Riproposto poi sulla monografia Antonio Pizzuto inediti e scritti rari (quattro numeri della rivista <<Taverna di Auerbach>> dedicati allo scrittore dall’Editore avv. Enzo Tofani di Alatri. Il contributo reca questa volta il titolo: Trattatelo in laude.
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*Vedutine circa la narrativa
Alla base dei miei modesti scritti credo si trovino alcuni semplici punti che, come tutti i principi, sotto l’aspetto di punti di partenza, risultano poi evidenti punti di arrivo:
1) Noi non possiamo conoscere che i nostri giudizi.
2) Noi non siamo però i nostri giudizi, siamo vita.
3) Intanto, questo pure è un giudizio: donde un dualismo insuperabile, essendo ben chiaro che giudizi e vita si presuppongono a vicenda e che ogni tentativo di risolvere tale dualismo, a prescindere dalla valutazione di questa pretesa, conduce ulteriormente e sempre ad analoghe affermazioni.
4) Lo scetticismo è pure un giudizio, così come qualsiasi istanza definitoria, che anch’essa vi riconduce in perpetuo o, più esattamente, adduce a traguardi tautologici.
Strumenti di evasione potrebbero essere il fideismo, di cui non è qui il luogo o momento di parlare; oppure lo stupore, non già lo stupore libero, lirico, bensì uno stupore disciplinato dalla propria consapevolezza, cioè poesia.
Essenza delle mie pagine, loro frutto e fonte ad un tempo, è un antistoricismo assoluto. La storia è un’esigenza a priori, categorica, inattuabile nella realtà storiografica perché è una ricerca senza fine che nessun risultato può soddisfare. Da qualsiasi dato possibile, lo sappiamo bene, scaturiscono incessantemente problemi nuovi. Il fatto è dunque un’astrazione, continuamente trascesa dal nostro bisogno di storia, che può concepirsi come una ricerca della persona nella persona, della vita nella vita: una narrazione insomma che ne sarebbe l’espressione e che io distinguo da racconto, ma non ne è una evoluzione dialettica, poiché narrare non è l’opposto di raccontare. Raccontare è proporsi di rappresentare un’azione, cioè uno svolgimento di fatti ma, anziché rappresentarli, il racconto in ultima analisi li registra. Personaggi, eventi, dati psicologici, tutto si va pietrificando via via che lo si racconta. La narrazione vince l’assurdo di tradurre l’azione in rappresentazioni poiché riconosce che il fatto è un’astrazione. Se i personaggi raccontati sono dei documenti, i personaggi narrati sono dei testimoni, la rappresentazione non è più offerta ab extra, come una planimetria sottoposta al lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che legge, con una compartecipazione attiva, direbbe un tomista in contrizione.
La narrazione diventa così sostanza-forma, ciò stile, non più analisi, ma sintesi trascendentale in cui l’azione riprende vita, poiché la narrazione non ne è più il ritratto, bensì una risonanza.
Dal riconoscimento che il fatto è astrazione deriva evidentemente, fra loro, sotto l’aspetto formale, una schietta tendenza a rifiutare i tempi determinativi del verbo, in particolare il passato e trapassato remoto, da sostituire con delle forme infinitive. Si è detto che io sopprimo il passato remoto e <<vado avanti con l’imperfetto e l’infinito storico>>, come si direbbe che un automobilista marci a tre cilindri se il quarto è disobbediente. Quanto ho accennato è il senso esatto dell’innovazione, che viene completamente e rigorosamente attuata in questo lavoro, Paginette, e non lo è ancora nei precedenti.
*Paragrafi sul raccontare, <<Questo e altro>>, n. 5, 1963, pp. 31-32 (ristampato, con lievi modifiche, in appendice a Paginette, Milano, Lerici 1964, pp. 175-179; ancora in appendice alla ristampa di Paginette, Milano, Il Saggiatore, 1972, pp. 185-189, con il titolo Vedutine circa la narrativa.
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*Sintassi nominale e Pagelle
Si parla o scrive parecchio di una sintassi nominale, cioè elidente verbi nei modi finiti, nuova quanto almeno potrebbe esserla senza Rabelais, padre e Joyce, e specifica: in verità, più che specie, genere. Dagli straricchi cataloghi pantagruelici alle sincopate intitolazioni sui giornale, quante le classi, peraltro comprensibili sotto la voce sommaria del registrare. Schietta nei gelosi diaristi, in Pepys per esempio, o destinata ai lettori, come passim fa D’Annunzio lungo il Notturno, quanta messe altresì per i calcolatori, parola prevalsa riscoperta entro il letargo vedico. Non è parte di questa nota l’indagine sulle cause, intenzioni e tutto quanto altro riguarda le fortune toccate a tal novità. La mia è una mera precisava difesa di origini e uso che io ne ho fatto negli ultimi lavoretti. Potrei riassumerla dando un nome proprio al modo o stile, via, cui son pervenuto: battezzare questo una sintassi narrativa, meno approssimativamente che nominale. Dovrebbero ormai essere note le mie idee su narrare, distinto qual sostanza ed essenza dal raccontare volubili contingenze pietrificatisi passo passo in discontinuità astratte ed immote, mentre l’intento sarebbe di costituirle in fieri, in convenuta azione configuranda. Ogni atto così registrato trasfigura nel coglierlo qual semplice documento inerte, passivo: mostra corde tale finzione. In ciò non incorrono beninteso (ne è intuitivo il perché) le arti rappresentative e la musica, incorporea. Nel teatro i detti personali, meri frammenti in copione e pagine o carte assimilabili, manifestano vita a bocca dei personaggi, parimenti spiritualizzandosi, donde il connubio congenito fra musica ed espressione verbale. Riconoscere l’irrappresentabilità evidente del raccontare adduce alla narrativa, fatti tra parentesi, o offerti da predicati conglobanti il particolare in contrizione coscienti. Donde l’indeterminismo, sostanza pura del narrare. Per determinismo intendo non già lo scorcio, ma il suo insufficiente dinamismo espansivo. Certo non dobbiamo partire dal dubbio metodico per scegliere in questa coppia presa a caso. Love’s delighte in praises./ Pronto, chi parla? Ne derivano, simmetricamente distribuite nei tre libri, le sessanta lasse di Paginette, Sinfonia, Testamento. In esse, scevere già di forme verbali troppo definitive, quali i detestabili piuccheperfetti e, a mano a mano, i passati, meno storici ma sempre tali, va rimanendo, seppure ben rarefatto, il solo imperfetto, l’unico idoneo a esprimere azioni con minima determinatezza: il presente e il futuro non narrano, monologano. Ma le stesse due ultime di Testamento, più che lasse, ormai sono pagelle, il verbo vi è scomparso del tutto nei suoi modi finiti. L’indeterminismo narrativo è attuato puro dalle incompatibilità estetiche anzidette. Sorge una sintassi non solo nominale, ma in armonia col narrare: quella cioè che appunto potrebbe essere detta (non è, credo, semplice questione di nomi) una sintassi narrativa. Queste mie righe sono intese esclusivamente, ripeto, a giustificare l’innovazione, per difendermi da ovvie accuse di tecnicismo virtuoso, bizzarrie e simili. Esse non hanno alcuna pretesa dottrinale, che richiederebbe spazio e tempo a me non concessi, sotto l’imperativo di riservare le scarse energie rimastemi più alla fantasia che a discorrerne. Sono pervenuto a questa estrema scrittura non per un programma precostituito, che significherebbe scuola, ma per combinato concorso di spontaneità e logica. Lo so bene, l’accenno è troppo succinto, affrettato anzi, con possibilità di contatti estrinsechi. Raccomanderei, come ho già fatto in altre sedi, un riscontro fra lettera e spirito prima di un conclusivo giudizio a ponentibus, direbbe san Tomaso, deum non esse. Soprattutto non mi si addebitino atteggiamenti mai avuti, l’Einstellung del personaggio scespiriano: I am Sir Oracle, And when I ope my lips let no dog bark! Profanabile in: Io sono Ser Oracolo, e quando apro bocca nessuno fiati. Valgano qual saggio concreto, in vivo, di siffatta sintassi i frammenti che precedono.
* Sintassi nominale e Pagelle (con le <<Pagelle>< V, VI, XIII, XIV, XV), <<L’approdo letterario>>,a. XVI, n. 52 n.s., dicembre 1970, pp. 14-22 (ristampato in appendice a Pagelle I, Milano, Il Saggiatore 1973, pp. 156-164, e in <<La taverna di Auerbach>>, cit., pp. 300-302).
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*Note su una nuova estetica
Pagine di genunina filosofia ci ha dato Carmelo Ottaviano con le sue Nuove ricerche all’ essenza del bello, pubblicato nel I° fascicolo si <<Sophia>> del corrente anno. Chi ha letto la sua critica all’Estetica di Benedetto Croce se le aspettava quasi e le richiedeva, poiché in quella inflessibile nullificazione della rinomata dottrina crociata erano impliciti il possesso e la guida di una personale visione ben meditata e matura ormai del problema. In che consiste essa?
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Uno sguardo ai più noti fra i tentativi compiuti di cogliere l’essenza del bello ne palesa l’inadeguatezza, donde le esigenza di cercare ancora la soluzione soddisfacente. Si è considerato di volta il bello, per dirla con le parole di un grande, come un favore reso dalla natura a noi o come un favore reso da noi alla natura; in ogni caso esso è sfuggito fra le maglie dell’analisi, ed è rimasto confuso e non individuabile in seno all’ opera d’arte, ora qual arcano elemento reale, ora quale proiezione dello spirito cercatore. Il primo gruppo di definizioni ha peccato per difetto, l’altro gruppo – ed è il maggiore- ha peccato per eccesso, molte conclusioni risultando applicabili anche al non-bello e tali da sboccare quindi in un inane panestetismo.
L’unica tesi residua che, pur non essendo riuscita a cogliere di fatto l’essenza del bello, ha tuttavia indicata la via buona da battere per ricercarla è stata quella aristotelica della proporzione e dell’armonia: proporzione sotto l’aspetto oggettivo, armonia sotto l’aspetto soggettivo. Le Nuove ricerche di Carmelo Ottaviano muovono appunto da qui alla scoperta specifica di tale proporzione e a stabilire la legge che ne determina l’armonia: il segreto del bello non può rinvenirsi altrove.
Or dire proporzione, o armonia significa dire tanto capacità di crearla che capacità di rinvenirla, cioè di giudicarne. E’ implicito insomma in tali concetti quello del giudizio. Il bello consiste dunque non in una pura intuizione o meramente in un sentimento, ma in una valutazione, in un atto intellettuale che determina – non è detto come – il godimento estetico: godimento circa il quale si rimanda alla nostra esperienza introspettiva, pur con qualche vago spunto teleologico.
Si per viene così a una critica del giudizio estetico e, ricordata l’insufficienza della teoria tradizionale dal punto di vista euristico, vien presentato come autenticamente fecondo il giudizio sineterico. La dottrina dei giudizi sineterici è nota a chi conosce la Metafisica dell’essere parziale, in cui l’Ottaviano l’ha esposto esaurientemente. Costretto nelle angustie immancabili in ogni visione di scorcio, l’accenno contenuto nelle Nuove ricerche non possiede forse tutta la perspicuità desiderabile, sia come enunciato che nell’ esemplificazione, la quale trascura fra l’altro certi calzanti postulati per estendersi invece a giudizi di cui sembra problematica la sinetericità, come il <<Cogito ergo sum>> (se si consideri che a gran parte della filosofia contemporanea potrebbe assegnarsi quale fondamento addirittura un <<Cogito ergo sum>> e il più esplicito è, fra gli esistenzialisti, lo Jaspers, col suo das Umgreifende), oppure svariati giudizi semplicemente correlativi e, perché no, i principi della coerenza i quali, più che giudizi, ne sono i presupposto
irraggiungibile.
Il nome di sineterici scelto dall’ Ottaviano è facile: esso riflette nei due elementi che lo compongono il vincolo necessitante e l’eterogeneità dei termini vincolanti dal cui insieme il giudizio sorge, irrefragabile come il vecchio giudizio analitico e fecondo come ogni giudizio sintetico, espressione quindi di una legge vera e propria. Si può pertanto parlare anche di un fondamento oggettivo della bellezza, sia naturale che nell’arte, fondamento che si trovatella musica, e precisamente nell’accordo perfetto maggiore. Fra il do, il mi, il sol, e il do all’ottava onde l’accordo risulta esistono, ci dice, i seguenti rapporti nel numero di vibrazioni delle onde sonore: 1, 1 + ¼, 1–+1/2, 2. Or è questo proprio <<un rapporto necessario fra diversi, cioè un rapporto che implica la messa in giuoco di un valore costante quanto al numero delle vibrazioni solo fino ad un certo limite, e non più costante appena questo limite sia superato. Infatti la terza nota (mi) ha un numero di vibrazioni superiore di un quarto esattamente rispetto al numero delle vibrazioni della nota fondamentale (do); la quinta nota (sol) ha parimenti un numero di vibrazioni superiore di un quarto esattamente alla terza nota (mi), mentre il salto tra la terza nota e l’ultima (il do dell’ottava successiva) non è più retto dallo stesso rapporto: dovrebbe essere infatti superiore di tre quarti rispetto al numero delle vibrazioni della nota fondamentale (do) e quindi di un quarto rispetto alla quinta nota (sol), e invece è superiore esattamente del doppio della differenza tra la nota fondamentale do e la terza nota mi e tra la terza nota mi e la quinta sol. Intanto, se così non fosse, l’accordo stonerebbe: a che quindi l’accordo sia consonante, il rapporto tra gli intervalli dei suoni o note che lo compongono non deve essere costante, ma diverso. L’accordo, cioè, è retto ai fini della consonanza da un nesso di necessità tra diversi>>. La perfetta consonanza di questo accordo dipende dunque, più che dalla semplicità dei rapporti fra le sue note, dal fatto che esso obbedisce a una legge di tipo sineterico, la quale viene enunciata nel modo seguente: << Il rapporto armonico in cui risiede la bellezza quanto alla musica è rappresentato da una relazione necessaria parzialmente costante o uniforme tra valori numerici diversi>>. Analogo è il fondamento oggettivo della bellezza nella scultura e nell’architettura che a loro volta adottarono, almeno in certe epoche, come proprio canone estetico, per quanto concerne la dimensionalità, la proporzione che ha come termine medio la sezione aurea di una determinata lunghezza. (E’ noto che, ponendo quest’ultima uguale all’unità, la sezione aurea eguale a 0,618.03…). Anche qui risultano due intervalli uguali e uno differente, quest’ultimo precisamente uguale alla somma dei primi due, come si è visto per la musica.
Altrettanto può affermarsi della poesia (dell’arte in prosa non si parla). Dice l’Ottaviano:
<< Consideriamo il metro per eccellenza, l’endecasillabo. Nella sua forma perfetta esso comporta l’accento sulla seconda, quarta ottava e decima sillaba,… Si dà quindi, anche in questo caso, una relazione o nesso necessario parzialmente costante o uniforme tra valori numerici diversi. Infatti nella progressione 2, 4, 8, 10 l’intervallo tra 2 e 4 è 2, e tale è anche l’intervallo tra 8 e 10; invece l’intervallo tra 4 e 8 è il doppio di 2, precisamente come nel caso dell’accordo perfetto maggiore>>. E la stessa legge vale altresì per i colori, la cui successione è suscettibile di essere fissata in intervallino incidenti con quelli della scala musicale (ne sono esempi curiosi i colori in giuoco nell’aurora, esposti comparativamente con valori numerici corrispondenti ai rapporti dell’accordo perfetto maggiore, oppure i colori della Venere classica, circa la quale è detto: <<Ecco perché la Venere piace: perché la legge delle sue proporzioni è la medesima legge che regola l’accordo per perfetto maggiore. Ciòè, può dirsi, perché è un’espressione Musicale>>).
L’universo intero è retto da leggi espresse in giudizi sineterici e, dice l’Ottaviano, << di conseguenza, se la relazione armonica della bellezza è costituita da un rapporto sineterico di un dato tipo e solo da esso, le leggi sintetiche che regolano l’universo conformi a quel tipo sono espressioni di bellezza e fonte di godimento estetico. Può quindi concludersi che ogni relazione armonica di bellezza ha come suo fondamento un determinato rapporto sintetico tra valori reali o possibili, e viceversa ogni legge sinerterica del reale di quel dato tipo costituisce un’espressione di bellezza e una fonte di godimento estetico>>: dottrina questa che, avendo generalizzata la tesi, l’espone forse al rischio del panestetismo, inficiante le precedenti concezioni estetiche. Che tale interpretazione non pecchi eccessivamente lo confermerebbe anche la definizione del fondamento metafisico del bello, subito dopo espressa nei seguenti termini: <<E’ così trovato il fondamento metafisico del bello: ma relazione armonica è bella perché corrisponde ad una determinata legge universale e necessaria del mondo reale o del mondo possibile; viceversa, ogni legge universale e necessaria del reale o universo di quel determinato tipo è una espressione di bellezza, che si inquadra nelle funzioni della sensibilità e dell’intelletto>>.
Per quel che riguarda il bello naturale, la legge sineterica sarebbe rinvenibile nel valore estetico della sezione aurea, che ci si presenta in modo inatteso attraverso le ricerche compiute da Jay Hambige sulla nota progressione addizionale dei numeri detta di Fibonacci e , dai tedeschi, di Lamé: quella progressione cioè che si ottiene nella serie naturale dei numeri se, a partire da 1 più 1, si somma successivamente il numero ottenuto con quello che lo precede. Ponendo in rapporto i termini di ogni singola somma e distribuendo i successivi rapporti alternamente su due colonne, in modo che la prima risulti composta dai rapporti dispari e la seconda dai pari, si rileva che i termini della prima, discendendo da 1.000.000, e quelli della seconda, ascendendo da0,500.000, tendono entrambi al numero 0,618,03… sopra menzionato nell’accennare alla sezione aurea. Or il rapporto di 0,618.03… a 1 determina un rettangolo – particolarmente gradevole all’occhio – togliendo da quale la parte aurea si ottiene un rettangolo minore di eguali proporzioni, e così via. Una curva che, partendo dal polo del rettangolo minimo si sviluppi via via tangenzialmente ai due lati adiacenti di ciascuna delle varie figure così costruite si presenterà, secondo lo Hamibdge, come una spirale logaritmica che risulta essere una delle forme fondamentali dell’architettura naturale, come lo Hamibdge ha trovato nelle strutture di chiocciole, gasteropodi e in piante (margherite, pigne, carciofi), ma particolarmente nei girasoli, in cui i semi sono disposti in spirali logaritmiche – sinistrorse e destrose – numericamente ordinate con piena conformità alla progressione di Fibonacci. Donde l’Ottaviano ricava la seguente legge: << La crescita di un organismo vivente è regolata o comandata dalla legge della sezione aurea, a sua volta connessa con la serie di Fibonacci>>. Da ciò egli conclude: << E poiché è ovvio che la norma del bello naturale sia unica , ci troviamo davanti a una legge che ci permette di collogare l’universo dei viventi all’universo dei non viventi; e tale legge sarebbe proprio la legge della bellezza>>.
Or il rapporto trovato nell’accordo perfetto maggiore della musica, come nella poesia e nella pittura, è per l’appunto un rapporto in cui l’ultimo intervallo equivale alla somma dei primi due: ma questo, egli nota, << è il principio o rapporto basilare o strutturale della serie addizionale di Fibonacci e in generale di tutte le serie addizionali. Ciò dimostra, o è almeno un indizio significativo, che la legge del bello in tutte le sue manifestazioni può ricollegarsi al rapporto espresso da una serie addizionale. Quanto ha detto lo studioso americano (lo Hambidge) si riporta di conseguenza alla teoria sopra esposta sull’essenza del bello – e in particolare al giudizio sinerterico – di cui diventa un caso particolare>>. Quella serie intanto è numericamente connessa con la struttura della sezione aurea (quando, s’intende, questa sia rapportato all’unità). Da ciò l’Ottaviano trae la seguente considerazione: << Se il bello in natura, in quanto è regolato dalla norma della sezione aurea, è a sua volta collegato allea serie addizionale, non sarà forse da dire che la natura sia nel suo aspetto fisico che nel suo aspetto biologico procede come un gigante , il quale faccia ogni passo successivo come equivalente alla somma dei due precedenti, il rapporto da ciò nascente dando origine al bello in tutti i suoi aspetti?>>. E ne conclude che, se così veramente fosse, ciò sarebbe un titolo di gloria per l’Estetica: << A qualcosa la bellezza sarebbe stata davvero utile, oltre che servire come incentivo ai viventi per la propagazione della specie e allo spirito contemplante come testimonianza della profonda sinfonia che emana dall’universo>>. E, con un ultimo tocco, non senza un’altra punta di esplicito panestetismo: << E’ veramente singolare per noi il pensiero che quando contempliamo la bellezza del cielo stellato, o…, il godimento provato è nella sua essenza stessa identico a quello che il logico o il matematico o il fisico o il biologo o il giurista provano nell’inventare o scoprire le leggi che regolano le loro discipline>>.
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Questa dottrina ha la struttura di un ponte gittato fra la natura e noi, caposaldi del quale sono rispettivamente da un lato le proporzioni della sezione aurea, col loro equivalente numerico nei rapporti della serie Fibonacci quando la lunghezza proporzionale è uguale all’unità (0,618,03,…); e dall’altro lato l’essenza dell’accordo perfetto maggiore in musica , composto di rapporti, dei quali è rilevato il carattere parimenti addizionale. Ma sorge il problema dei limiti, entro i quali sia pensabile siffatta simmetria.. Anzitutto è da chiedersi se, premesso che l’estensione delle scale musicali, anche in una grande orchestra, non supera le sette ottave e mezza, sia possibile porle in relazione biunivoca con la serie Fibonacci, che va all’infinito, mentre il rapporto musicale non fa che ripetersi in ogni ottava successiva. A parte ciò l’analisi combinatoria offre spunti molto ricchi per stabilire rapporti, e l’algebra aiuta a calcolarli: possiamo facilmente determinare il numero dei possibili ambi, terni, quaterne e cinquine al giuoco del lotto, le ragioni della prova per nove e dei caratteri di divisibilità nei numeri, fra i quali il più suggestivo è quello relativo al 3, donde quella mistica ternaria che ha appassionato somme personalità di tutti i tempi: Pitagora, Dante, (che fra l’altro chiama ripetutamente nella Vita Nuova Beatrice << un nove>>), Hegel: l’Ottaviano stesso ha dato alla sua Metafisica dell’essere parziale un’architettura triadica. Qualcosa di analogo può dirsi circa l’ordinamento degli elementi chimici secondo pesi atomici crescenti – il così detto <<sistema periodico>> – concepito dal Mendelejeff, che su quella base potè prevedere l’esistenza di elementi scoperti dopo di lui. La riscontrata onnipotenza di0,618.03… è, come egli del resto riconosce, una proprietà combinatoria appartenente alla serie dei numeri insieme a tutte le altre, e potremmo domandarci se il fatto di ritrovarlo poi nella fillotassi e in alcuni animali e piante, anziché valere da minore di un sillogismo, sia pur sineterico, non possa lungi da ciò indurre a considerare quali e quante leggi combinatorie diverse ricaverebbe la scienza studiando con questo esplicito proposito i fenomeni naturali, cioè prendendo piuttosto la formula 0,618.03… come un indizio della probabilità di una immensa serie di combinazioni e rapporti esistenti o possibili. Torna qui alla mente il famoso pseudo-teorema spenceriano sulla necessaria molteplicità di abitanti provvisti del medesimo numero di capelli in una città nella uqale la popolazione, dal punto di vista quantitativo, sorpassasse il numero di capelli di un suo abitante.
D’altro canto, passando all’accordo perfetto della musica, a parte che il numero di vibrazioni di onde sonore, ridotto a frazione di ¼ per la terza nota mi rispetto al do, non può essere pure di ¼ per la quinta nota sol rispetto al mi, poiché fra mi e sol intercede un semitono in meno che fra do e mi, l’analogia rispetto alla progressione numerica addizionale è stata posta non col fatto armonico, ma col fatto puramente e semplicemente acustico dell’accordo: sarebbe come se, per studiare l’essenza del bello offerto da una campagna dopo la nevicata, si analizzasse la cristallizzazione della neve. Dal punto di vista armonica l’accordo perfetto della nostra scala musicale (una fra le tante che ne esistono e ne sono esistite nel tempo e nello spazio) non è né bello né brutto: il suo ufficio è semplicemente tonale-modale. Compongono infatti tale accordo: a) la tonica, cioè il primo grado – nell’esempio addotto il do – ; b) la terza (il mi), che stabilisce la scala maggiore o minore, secondo che sia rispettivamente mi naturale o mi bemolle, ossia che abbia la tonica un intervallo di due toni interi o di un tono e mezzo; c) la dominante, cioè il sol, così chiamata perché il suo accordo di settima (sol, si, re, fa) determina senz’altro la modulazione all’accordo tonico perfetto (ne è elemento essenziale, in rivolto, la quarta maggiore fa, si, di cui è controverso se debba considerarsi accordo o dissonanza, donde il nome di diabolus in musica datole dagli armonisti); d) l’otava della tonica, su cui discende la sensibile, ossia il sì. Questo do può soltanto figurativamente dirsi do2. L’accordo perfetto presuppone una scala diatonica che abbia due semi toni naturali, l’uno fra il terzo e il quarto grado, l’altro fra il settimo e l’ottavo. Va soggiunto che è un accordo perfetto anche l’accordo minore, al quale è inapplicabile, pure sotto l’aspetto acustico, la serialità addizionale di rapporti esposta nelle Nuove ricerche. L’accordo perfetto costituisce una stasi assoluta: è un punto di arrivo, cadenza, non un elemento estetico. Per comporre musica occorre anzitutto rompere questa stasi. Vi è, sì, nella storia della musica un caso, che passa generalmente inosservato, in cui dal semplice alternarsi di accordi di settima di dominante con accordi perfetti si è creata una musica possente e travolgente che non ci si stanca mai di ascoltare con indicibile commozione: il primo tempo della prima sinfonia di Beethoven. (La sua tragica potenza, espresso all’inizio del gran ciclo sinfonico che seguì, richiama curiosamente quella maì raggiunta nel Decamerone proproprio dalla prima novella della prima giornata, la terrificante novella di Ser Cappelletto). In questo stesso I° tempo si offre anche – precisamente nell’episodio sincopato dell’Allegro con brio – uno stupendo passaggio al do minore, ottenuto prodigiosamente con l’inatteso semplice intervento del mi bemolle nella cadenza: e ne risulta una grandiosa espressione di pathos titanico. Ma , sia gli effetti di tali cadenze in accordi perfetti maggiori, che quest’ultimo indimenticabile di essenza modale, hanno il loro segreto non già nello scolastico fatto armonico, bensì nell’epica inspirazione che se ne avvale. Non occorre poi dire che la musica risulta da una triplice fonte: melodia, ritmo, armonia. Al primato fra questi tre elementi, che fu tenuto dall’armonia nei secoli scorsi, avendo inizio con la polifonia palestriniana del Cinquecento, subentrò gradualmente, attraverso il bel canto italiano del secolo XVII, l’elemento melodico e il canto monodico rese filiforme la parte armonica – ridottasi a basso numerato -, che riprese poi sopravvento nell’orchestra wagnerina, fino alla quale il ritmo serbò carattere unitario e anzi monastico. Ma la sensibilità estetica musicale del tempo nostro non è più né armonica né melodica: è essenzialmente ritmico, e più precisamente poliritmico. Il merito di Strawinski è di aver avuto per primo l’intuizione di questa nuova tendenza estetica. Non già che melodia e armonia siano scomparse; ma l’armonia di oggi è, diciamo così, armonia non euclidea, e la melodia non lo è meno, né potrebbe essere diversamente per la con genitura di entrambe e per la contuizione che ne deriva. Tutto questo per dire che la storia della musica e la coscienza musicale contemporanea sono come opposte alla dottrina che fa centro, per risolvere il problema della musica, nell’accordo perfetto costituendone una legge invariabile. In un concerto o a teatro il pubblico di oggi applaude con entusiastica comprensione tanto la Casta diva belliniana che le musiche di Bartok.
Fin qui del resto siamo sempre nell’ambito della pura forma. Ma l’arte non è pura fprma. Se lo fosse, verrebbe a mancare il gran criterio essenziale dell’estetica e non saremmo in gardo di distinguere fra l’espressione tersa, squisita, affascinante quanto si voglia dei meri esteti, priva però di sostanza poetica, e l’altra che non è soltanto formale, ma autentica espressione di tale sostanza: l’arte è una sostanza-forma; dipende da ciò il famoso <<poesia e non poesia>>.
Appunto per ciò siamo convinti che queste Nuove ricerche sono semplicemente l’introduzione alla Nuova Estetica e che dobbiamo attendere un seguito, presto o tardi immancabile, prima di formulare un poderato giudizio sull’ appassionante dottrina.
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Ci è sfuggita l’affermazione che, nel ridurre il bello a puro atto intellettuale, e più precisamente razionale, di cui il godimento estetico sarebbe un effetto, una specie di risonanza sulla sensibilità, non ci sia stato detto come ciò avvenga, e cioè perché il bello piaccia. In verità una soluzione esplicita di questo problema è data, ma in tali termini da lasciarlo forse intatto. Consiste infatti nel giudizio che il bello piace perchè infonde felicità, la quale a sua volta è dovuta alla consapevolezza di possedere nell’opera d’arte l’espressione oggettiva della stessa legge estetica su esposta.
Questa legge dunque è il limite fisso che l’artista dovrà tener presente per creare il bello, poiché ne costituisce, oltre che l’essenza, anche il criterio sostanziale. E ne vengono addotti copiosi esempi sia di musica che di poesia, mostrando con lucide analisi che in ciascuno di essi la struttura dell’opera di arte riposa sullo schema sineterico di una mediazione fra diversi, anzi addirittura fra opposti. Si comincia con la Sonata patetica di Beethoven, della quale è detto: <<Ecco chiara la mediazione dei sentimenti, il tema fondamentale, la malinconia, che media i due opposti, la tragicità o pieno dolore, e la gioia, sfociando nell’ espressione della pateticità, il grido gioioso di un’anima dolorosa>>. Torna qui la vexata quaestio sul valore ideologico dell’espressione musicale, infirmato dai fatti: di uno stesso tema musicale si sono serviti due grandi, Haendel e Pergolesi, il primo nell’apocalitico Dies irae, il secondo per l’arietta civettuola di Terpina nella Serva padrona (<<Non sono io bella?>>).
Si passa agli esempi poetici col presupposto dell’identità fra la legge onde la poesia, come sopra abbiamo citato, è retta e la legge posta a fondamento della musica: identità provata, a mio modestissimo avviso, non del tutto sufficientemente, poiché si basa soltanto sugli accenti ritmici – 2°, 4°, 8° – determinanti una specie di uno dei tanti metri poetici tipici, l’endecasillabo, che viene detto <<il metro per eccellenza>> e tale suo tipo con gli accenti sulla 2°, 4°, 8° sillaba come la <<sua forma perfetta>>. E’ questa una semplice asserzione. L’endecasillabo con l’accento ritmico sulla 6° non è meno armonioso: l’armonia dell’uno e dell’altro dipende dalla posizione che nell’endecasillabo – verso composito – occupa, quando c’è , il quinario saffico; se esso si trova nel primo emistichio avremo accenti su 2a (o 1°, bisogna aggiungere), 4° e, solo eventualmente, 8°; se invece nel secondo emistichio, gli accenti ritmici saranno sulla 6° ed, eventualmente, 8° sillaba. Ma da ciò non segue che endecasillabi con accentuazione ritmica differente siano meno belli. L’endecasillabo con gli accenti sulla 4a e 7a per esempio, ha una sua particolare efficacia incalzante. Dante lo usa spesso con funzionalità incitatoria.
Gli esempi poetici addotti dall’ Ottaviano sono tratti dalla lirica greca e latina alcuni, dalla poesia popolare dei popoli primitivi altri, e da luoghi famosi di Dante, Foscolo e Leopardi: non mancano richiami alla raffinata poesia persiana,. Circa il primo gruppo, la scelta è caduta su frammenti in cui più manifesta è la silloge poetica ellenica – imita poi dai latini (tolto forse Lucrezio) – del contrasto fra volere e potere, riflettente la posizione della coscienza greca di fronte alla natura. Per la facilità dello schema essa fu importata largamente da altri popoli; e i suoi innegabili echi anche nell’ anima dei popoli primitivi possono spiegarsi col fatto che lo stato culturale attuale di parecchi fra questi è soltanto l’effetto di un isolamento secondario, anziché primordiale. Ritrovamenti archeologici attestano spesso precedenti civiltà evolute e penetrazioni di altri popoli civili nelle aree di tali moderni primitivi, per esempio degli egizi nelle aree bantù e, in genere, negro-africano; circa il poeta citato delle isole Marshall non va dimenticato che l’Australia possiede una letteratura risalente al sec. XIV dell’èra nostra. Per quel che riguarda la poesia persiana, il suo fondamento è più religioso che lirico e lo stesso canto monodico, via via procedendo verso l’oriente, si polarizza nella liturgia. Nulla è detto della poesia bengalese e di quella cinese, che diversificano nettamente dallo schema in parola sostituendovene, beninteso, altri. Quanto alla menzionata siepe leopardiana, è più spontaneo interpretarla come una quinta, anziché come antitesi. Resterebbe la preghiera alla Vergine nel canto XXXIII del Paradiso: ma qui, osiamo dire, la mediazione è veramente l’ascesi della Mediatzione. Sarebbe stato agevole rintracciare la medesima struttura anche fra gli angolosassoni.
Costretti a limitarci, accenniamo soltanto a qualcuna delle numerosissime espressioni di questa vera e propria maniera in Shakespeare; e che si tratti di maniera lo rivela l’identità strutturale dei passi; ecco per es. il tema dell’allodola e dell’usignolo che, spalmato alquanto leziosamente sugli ardenti detti di Romeo e di Giulietta, ne smorza certi tratti sublimi come l’immortale: <<thinkst thou we shall meet again?>>; e non è forse sostanzialmente lo stesso il tema del dialogo nella torre di Londra fra il principino e Uberto, che dovrebbe cavargli gli occhi? Poi, dove il genio shakesperiano erompe travolgente, la scuola è dimenticata e vengono a mancare mediazioni ed opposti, che si ricercherebbero invano nei momenti inspirati delle tragedie e commedie o dei miracolosi drammi storici, vera epopea britannica. La stessa assenza può constatarsi in altri capolavori di altre genti: nella faustiana Notte di Valourga, per dirne una. In Italia ritroviamo siffatto schema non solo in versi ma anche in prosa (specie nell’epistolografia: si percorra l’epistolario leopardiano); fra i tanti se ne servì molto – si potrebbe dire addirittura troppo – il Parini. Tutti gli esempi indicatici conducono alla tesi seguente: <<La norma che prescrive la mediazione di più (quattro o tre) sentimenti e più immagini in un componimento poetico risponde certo alla grande arte; ma si ha pure poesia quando si ha la contrapposizione di due o più immagini opposte o diverse esprimenti un solo sentimento, o anche l’accostamento di due o più immagini opposte o diverse esprimenti un solo sentimento>>.
E’ qui doveroso segnalare un rischio, anzi un grave pericolo, se ciò dovesse essere applicato dall’artista senza i preziosi avvertimenti di una sana autocritica: quello di abbattere del tutto le già fragili e tentennanti barriere fra estetica. Ecco perchè le Nuove ricerche determinano l’esigenza di un approfondimento verso la sostanza dell’opera d’arte. Sostanza, non semplice contenuto. Vi è, sì, un contenuto in ogni opera d’arte;ma se questo dovesse esserne l’unico componente, l’operad’arte scaderebbe all’ufficio di semplice veicolo. Non vi sono lodi che bastino per la netta opposizione dell’Ottaviano al superficiale eclettismo estetico circa i rapporti fra arte e morale, etc. << L’arte, egli dice ottimamente, come tale non ha direttamente fini da raggiungere o missioni da compiere: suo unico fine è riprodurre il bello. Qualsiasi altra finalità può esserle collegata solo accidentalmente>>.
Questo audace e originale studio è completato dalla riproduzione di un affresco del Ghirlandaio, condotto intenzionalmente con l’impiego di proporzioni per sezione aurea. Se ne notano in abbondanza, tanto nella pittura che nell’architettura (specie quella sacra, a cominciare dalle chiese paleocristiane, e tuttora in quelle moderne, dalle navate all’altare e sua balaustrata). Ma tale impiego ha carattere storico, non ontico. Pier della Francesca, nel suo Trattato sulla prospettiva (ahimè pubblicato soltanto dai tedeschi e in tedesco), preziosa Selbstanzeige delle concezioni cui ispirano i suoi meravigliosi affreschi, ci offre strutture assolutamente indipendenti dalla sezione aurea, e altrettanto va detto dei canoni estetici leonardeschi, quali si rilevano dai suoi schizzi nel codice Atlantico. E la mente corre pure alla curvatura squisita del Ponte di Santa Trinità in Firenze, che si sottrae anch’esso completamente alla legge di cui trattasi…. Ma bisogna fermarsi qui.
Io non vorrei meritare due possibili rimproveri: il primo di petulante irriverenza, il secondo di venir forse considerato come un positivista in ritardo di qualche secolo. Quanto ho accennato circa la sostanza mi libera subito da quest’ultimo rilievo.
Circa il primo, queste modestissime osservazioni non sono state suggerite da velleità critiche, non confacenti a un sutor, ma costituiscono un devoto omaggio a Carmelo Ottaviano che, pur essendo io tanto più anziano di lui di età, venero per la sua alta mente e pel suo immenso cuore: quando si ha bisogno di un conforto nelle angosce del dubbio basta aprire le sue pagine per trarne forza e coraggio. Possa la sua fede sublime sorreggere sempre, nelle ore tormentose, la mente che non sia temperata alla lotta contro le insidie del pensiero!
(*) Ben volentieri pubblico nella mia rivista, e al posto d’onore, questo brillante, erudissimo articolo di Antonio Pizzuto, di critica alla mia estetica: << Sophia >>, è stata e sempre sarà (esempio unicoi in Italia) aperta a tutte le idee, e in prima linea a quelle contrarie o diverse dalle mie. Poiché altre critiche mi sono annunziate, risponderò a tutte in una volta sola. [Carmelo Ottaviano]
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*Impopolarità di Strawinsky
Igor Strawinsky non è riuscito a farsi comprendere se non gradualmente, superando via via se stesso. Ogni sua nuova opera è stata accolta con invariata ostilità, ma è valsa a far apprezzare quelle precedenti, e ha dovuto a sua volta attendere la successiva per guadagnare i consensi.
Le critiche mosse contro ogni nuova creazione di lui sono quasi tutte identiche e facili nella spontaneità demolitrice; ma concludono sempre con spunti apologetici per quelle musiche strawinskyane che al loro apparire erano state disapprovate. Il progresso insomma, pur trovandoci diffidenti, induce a riconsiderare con smemorata benignità le pagine musicali in un primo tempo discusse.
Da quali cause ha origine questo nostro atteggiamento verso Strawinsky? Non sempre sifatti giudizi negativi si su ragioni estetiche tali che possano giustificare la loro severità. E’ forse lecito dunque pensare all’ influenza di moventi psicologici che agiscono più o meno inconsapevolmente in noi.
Mentre va maturando nelle coscienze una ineluttabile trasformazione che implica l’abbandono del romanticismo, questo, sia pure con un certo nostro pudore, è tuttora vivo e operante, anche in quanti di noi avvertono la necessità di liberarsene. Ci troviamo impegnati in un conflitto di orientamenti spirituali che richiama al pensiero quello manifestatosi agli albori dell’Ottocento, allorché l’illuminismo dovette cedere alla tendenza romantica. Allora ne risultò la visione della vita dolorosa, di cui furono espressione il Foscolo e il Leopardi. Oggi Igor Strawinsky si è affrancato dal romanticismo, e da ciò il nostro scontento, la nostra istintiva avversione per chi nega inclinazioni sentimentali divenute nel tempo forti come dogma: avversione che si confonde con la perplessità. L’Ottocento comprese immediatamente i due poeti e li amò poiché rinvenne nel loro canto una compiuta risonanza coi propri palpiti. Per noi accade l’opposto coi due grandi novatori dell’arte contemporanea: Joyce per la letteratura e Strawinsky per la musica – due artisti di sorprendente affinità – poiché essi non esprimono la nostra crisi, ma sono gli interpreti di un deciso trapasso, donde il loro ottimismo creativo contro il pessimismo della poesia ottocentesca.
Strawinsky ci turba perché ci delude: pretendiamo che egli appaghi la nostra aspettativa mentre egli incomincia proprio col respingerla. E deve, da artista, respingerla se ciò sente: nessuna aspetativa è legittima nel progresso dell’arte, la quale si rivela come un perenne divenire estetico, poiché non esistono canoni immutabili cui essa debba conformarsi. I principi che ci guidano per intendere l’opera d’arte non hanno che apparentemente il valore di postulati e, lungi dal condizionarla ne derivano, fino a quando la realtà artistica poi non muti.
Strawinsky sta fuori del catechismo, non solo nella forma ma anche nella sostanza della sua arte. La storia della musica ci schiera davanti molti riformatori, specie nei tempi più recenti. Il carattere che essi hanno avuto in comune è stato quello di una creatività soggettiva, diciamo così “dal di dentro”, anche quando la rivoluzione compiuta dal genio si sia imposto come limite l’interpretazione dell’anima e delle tendenze universali in quel dato momento. Si consideri oer esempio la riforma wagneriana: nell’opera di Wagner è sempre presente un io che non consiste, si badi, nello stile, ma nell’essenza della sua musica. UN consimile io possiamo ritrovare quale sostanza fondamentale nelle creazioni musicali degli altri grandi maestri tedeschi, italiani e francesi, con contate eccezioni, quali il Palestrina e G. S. Bach. Orbene, Strawinsky si riallaccia a queste eccezione dipartendosi dagli altri musicisti. In lui, a somiglianza di questi due sommi, la musica si manifesta non come la proiezione di una sensibilità puramente soggettiva, ma come una realtà assolutamente raccolta in uno stato di grazia, non come creazione ma come creatura. Strawinsky coglie il fantasma sonoro così come gli manifesta, di là dagli schemi della razionalità equindi con rischio, e la sua musica è storia. Potremo sì analizzarla, ma sarà un’analisi di espressioni e di modi, non dell’essenza che è irraggiungibile. E se ci limiteremo ad ascoltarelo ma senza una nostra partecipazione che abbia l’energia di dominare le inclinazioni, questa musica non potrà apparirci che come sensualismo e come poliritmicità pura.
La sostanza però è ben altra: questa musica non è sensibilità che si articoli in espressioni di arte, ma si rivela come vita che si impersona, come l’accoglimento di un trascendente fluire e Strawinsky ne dà tangibile conferma col suo schietto attingere alle fonti popolari o al canto che le emula di un Pergolesi, di
Rossigni etc.: caratteristica questa che non doverebbe condurre all’ affermazione che l’arte di Strawinsky consista nel connubio di un contenuto con una forma poiché, a considerarla un po’ più a fondo, la natura dell’arte strawinskyana potrebbe definirsi piuttosto una sostanza-forma.
La sua musica è dunque esperienza, ricerca, adeguamento della musicalità alla sua espressione. Ci si presenta, per dir così, verticalmente anziché in senso orizzontale: sono lame di musica, non onde musicali. Ed ormaì, nel tempo nostro che trasforma i problemi in problematicità, quando l’arte ci appare un principio puro ed assoluto, mentre le forme concluse vengono considerate come astrazioni, non possiamo più giudicare coi criteri di una volta.
Strawinsky fa pensare al daimònion socratico. Ne ha l’ironia, quell’ ironia che suscita in noi il senso del paradosso, Ma la paradossalità, più che esser congenita nell’opera d’arte, è l’effetto di una nostra assuefazione bruscamente interrotta. Perfino Beethoven, si sa, fu tacciato di paradossalità, e non una sola volta. Molte composizioni di Riccardo Strass furono paradossali e non lo sono più. Quanto a Starwinsky, la sua paradossalità consiste per lo più nel grottesco, che è scissione, bivalenza, bifocalità. Un esempio familiare ne offre il notissimo finale di “Chez Petruska”, con la sua negata cadenza e con quel suo ruggire belardo, brutalmente mozzo. Anche queste battute furono, ma non sono più, paradossali. La musica starwinskyana è un continuo svolgimento: matura in noi e con noi.
* Igor. Strawinsky, “Fermenti”, a.XXVII. A.216 (n.44 1997, pp.49-56)
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