E dal silenzio riemerge Pizzuto
03/05/2001
Saputo che del suo ultimo libro (probabilmente “Si riparano bambole”) era stata venduta una sola copia a Napoli, non ci pensò due volte e partì alla volta della città partenopea per rimborsare di tasca sua l’ ignaro acquirente. Era anche capace di queste cose Antonio Pizzuto, figura singolarissima di scrittore e letterato, dalla indubbia genialità e dalla cultura sterminata, che leggeva in originale Kafka, Proust, Joyce e che traduceva Platone e Kant. Considerato il «padre laterale» delle neoavanguardie, amato visceralmente da Contini e ammirato da Caproni, Bo, Pedullà, Baldacci, ma anche ignorato oppure snobbato, lo «sbirro» (l’ espressione è sua) più colto di Palermo morì a Roma nel 1976. Adesso torna a far parlare di sé, grazie alla ripubblicazione, per i tipi della Sellerio, del romanzo Si riparano bambole, uscito nel 1960 presso Lerici e ormai introvabile. Preceduto da una preziosa nota di Gianfranco Contini, accolto con indifferenza negli anni Sessanta dalla critica militante come ricorda Pedullà, secondo di una trilogia formata da “Signorina Rosina” e “Ravenna”, questo romanzo sarà da domani in libreria e sicuramente concorrerà a strappare all’ oblio e al silenzio la vicenda e l’ opera di questo straordinario letterato, il cui manierismo, a detta di Segre, è quanto mai contiguo allo stile del quattrocentesco Francesco Colonna. Per la verità, già qualcosa era stata fatta per tirare in ballo questo «martire della letteratura»: basta ricordare quanto hanno fatto la Fondazione romana intitolata a Pizzuto e i “Quaderni” curati da Nosrat Panahi Nejad, oppure gli sforzi critici di Baldacci e Pedullà, inesausti sostenitori dell’ opera pizzutiana, per nulla in soggezione di fronte alla colpevole indifferenza della grande società letteraria. Oggi però i riflettori tornano a essere puntati sulla sua figura che subito apparse come il segno tanto agognato e atteso della rivoluzione innovativa nel romanzo in Italia, la prova che le impalcature tradizionali del dettato narrativo potevano essere evase, in forza di quella che Sebastiano Addamo definiva una «cosmogonia verbale». Con una scrittura difficile, dall’ andamento sovente musicale, con una sintassi accanitamente aggrovigliata, cancellando capoversi, abolendo gli accapo, dando spazio all’ analogia, all’ allusività, alle associazioni libere, Pizzuto era riuscito a far deflagrare il plot tradizionale, mettendo però in scena uno spettacolo kafkiano e quasi pirandelliano. Come quello di “Si riparano bambole”, definito un «flipper sentimentale di parole dell’ adolescenza e ricordi mascherati».