La dimora dello scrittore Antonio Pizzuto Ai Quattro Canti di Palermo
Pagina in fase di preparazione
Antonio Pane
Lezioni del maestro
lettere inedite e scritti rari
edizione
Libri Scheiwller, Milano 1991
[…]
Nel calettato “palinsesto” del suo soggiorno palermitano, la conversazione con Bianca Cordaro, apparsa su “La Sicilia” del 9 dicembre, è un sereno intervallo gentile. Nelgrande salotto davanti la luminosa finestra-veranda che si affaccia su tetti della città, ospite intenerito della figlia giovanna, Pizzuto risponde di buona voglia alle rinnovate domande sulle sue teorie narrative: “raccontare significaesporre appuntouna serie di fatti. Il fatto è rottura, azione, movimento. Ma, quando viene raccontato, si pietrifica. Trova una sua destinazione immutabile in un tempo limitato. Perde il suo aggancio con la realtà che è un fluire incessante, continuo e si congela. L anarrazione invece è concretezza: è la sostanza che, modellata dalla forma, fornisce lo stile”; scaldandosi un poco solo al punto della (per lui abituale) richiesta di un parere su Joyce: questi “attribuisce un’importanza assoluta all’elemento psicologico, all’indagine introspettiva, all’analisi intima. Per me l’elemento psicologico, l’indagine introspettiva, l’analisi intima sono nulla. Pure astrazioni. E le astrazioni, nella letteratura contemporanea, diventano pettegolezzo. Dal punto di vista filologico, al contrario, posso giustificare l’accostamento con Joyce: lo stesso amore per le parole nuove, la stessa necessità di pulizia linguistica, di nitore. La lingua italiana ha bisogno di essere rinsanguata, di ricevere linfa viva. I nostri autori quando scrivono un romanzo, si servano di quattrocentocinquanta vocaboli al massimo. ne deriva una prosa rarefatta, malata, estenuata.” Forse anche a voler correggere gli errori ortografici e interpretativi contenuti nella precedente intervista, ritorna pazientemente a spiegare – felliniano lessico d’amore – i suoi hàpax; con “una punta di malizia negli occhi furbi”, accettando poi di parlare del libro che sta scrivendo :” ho annullato i personaggi, nel senso che li ho privati di ogni attributo, perfino del nome. Naturalmente anche in questo libro c’è della gente che mangia, che parla, che viaggia, che compie degli atti umani. Ma non è gente fermata in un gesto, avvilita da un atteggiamento specifico, circoscritto nella precisazione di un fatto”.
In un colloquio con Pizzuto non può mancare un riferimento all’universo dei suoni: ” ho bisogno di armonia, perché sento la musica. Soprattutto quella di Stravinskij. Credo di avere delle affinità con Stravinskij. Me lo sento vicino per la sua poliritmicità, lo adoro. Ma amo anche gli altri: Beethoven, Pergolesi, Bach, tutto il bel canto italiano”. La grazia della giovanissima ospite richiede un omaggio particolare. Pizzuto inizia a leggere per lei una ” paginetta”: ” si commuove. Gli occhi sono pieni di lacrime, la voce è incrinata. Fa una pausa e si scusa. Asciuga gli occhi con un fazzoletto infantile, tutto orlato di azzurro, e riprende la lettura”. Una scena che ricorda quella svoltesi qualche anno prima a Milano, nello studio dell’editore Roberto Lirici, presenti Oreste del Buono, Gillo Dorfles e Ruggero Jacobbi, che ne ha riferito. Anche in quella primavera del 1963 Pizzuto compitava i lemmi di una sua paginetta: ” si ostinava a leggere sillaba per sillaba, riusciva a tenere le lacrime tutte dentro gli occhi, ma le parole avevano il suono tra incatarrato e lamentoso del motore che non s’avvia… il singhiozzo ora sovrastava la dizione, se la ingoiava”.
Rimanendo nell’area del sentimento, il Cuore del suo ritorno in Sicilia era stata la visita al luogo che all’intersezione delle due strade più importanti segna il centro ideale della sua città; “è stato una emozione fortissima” – aveva confessato alla sua interlocutrice – ” il mio sistema nervoso è molto fragile: credevo di morire, piangevo. Ho voluto rivedere la casa in cui sono nato. Gli amici avevano preparato l’incontro con in nuovi inquilini: così ho potuto visitare i tre piani del palazzo*”.
Gli amici, è inutile dirlo, erano Vanni Scheiwiller e Felice Chilanti. La casa è il labirinto infantile di anditi, scalette, stambugi, soffitte, con amorevole indugio dorato in Si riparano bambole: il secondo piano di palazzo Napoli(nel cui pianterreno, ‘mangiandosi’ una parte della maestosa entrata, ” larga ariosa quando ne varcavano soglia i legni per scalpitanti morelli”*.