Renato Tosini Il pittore, la negazione della sicilitudine
Mise-en-abime
di
Sergio Troisi
Quando parla, quando racconta di sé e della sua pittura, Renato Tosini imbastisce una trama di parole apparentemente tenue, lieve, divagante, dove le reticenze e i dubbi prevalgono sulle affermazioni e le certezze; ma quel tono discreto tesse in realtà un percorso di ritorni solo appena dissimulati che irretisce l’ascoltatore in un gioco simbolico dove si confondono presente e passato, la malinconia del ricordo e la crudeltà dell’immaginazione. L’immagine più evidente – la più banale forse – è quella di un sistema di specchi , simile a quella di una sua opera dove il classico personaggio di Tosini – il signore in età, calvo e panciuto – regge uno specchio aldilà del quale osserva – compiaciuto o allarmato non sappiamo – il proprio doppio in veste di ammiraglio, una mascherata innocua, irta di irrimediabile distanza e solitudine. E non a caso lo specchio ritorna come un leitmotiv nel video di Nosrat Panahi Nejad: una grande specchiera antica che riflette le pareti dell’appartamento – le porte, alcuni oggetti, un divano – e che, più che un trasparente omaggio iconografico alla sua pittura svolge piuttosto la funzione di una mise-en-abime di cui, del resto, l’opera di Tosini è assai prodiga. Nella distanza che lo specchio suggerisce, e a cui si sovrappongono la parola e la narrazione moltiplicando la seduzione e l’inganno dei riflessi, il linguaggio filmico definisce il suo approccio: frantumando ogni equivoco effusivo, raddoppiando gli angoli di visuale, scomponendo il racconto in un andirivieni che continuamente si interrompe e ricomincia. Non soltanto con lo specchio: le riproduzioni dei dipinti vengono inquadrate con una rotazione di novanta gradi, un monitor in primo piano stringe sul volto sfocato e in bianco e nero dell’artista alternandosi con la sua immagine a colori e a pieno schermo , la macchina da presa percorre l’appartamento – la grande casa-culla-arca di Tosini – con passo rabdomante, come in un
Il modello di labirinto più antico però, quello unicursale che si trova inciso su alcune monete di Cnosso con il suo andamento circolare poi ripetuto infinite volte, dove chi lo percorre – come nel labirinto pavimentale della cattedrale di Chartres – crede di ritornare sui propri passi anche se in verità li costeggia soltanto. Così – circolarmente – nella pittura di Tosini ritornano personaggi, luoghi, situazioni, architetture, in un labirintico sistema di variazioni; e così, nel video di Nosrat Panahi Nejad l’artista si muove all’interno dell’appartamento, tra il grande salone, i corridoi e il piccolo studio dove lentamente si definiscono le sue visioni notturne. Uno spazio fluttuante: che l’inesistenza su alcuni dettagli apparentemente marginali e sulla loro evidenza visiva – un orologio antico, un vestito, il battente di una porta – come avviene comunque già nei primi dipinti dove la precisione rappresentativa – a piacere – di un gemello da polso, della piega dei pantaloni dell’abito scuro, di una biglia, un cavallo a dondolo, un paralume o della carta da parati istillano nella scena un surplus di chiarezza allucinatoria, quella sospensione visionaria che accompagna lo stato di dormiveglia. In questo, il video non è soltanto un’intervista, un ritratto o un omaggio a una figura della cultura siciliana meno eccentrica di quanto possa sembrare (con le sue ascendenze familiari centroeuropee, Tosini è pur sempre in accordo saturnino con quella “corda pazza” di cui ha scritto Sciascia a proposito della letteratura isolana; e la sua pittura è, nei meccanismi del racconto figurativo e nei suoi puntualissimi marchingegni da teatro, profondamente letteraria) ma anche un esercizio critico amorevolmente ossessivo e claustrofobico.
Riflessione critica come ricreazione poetica
di
Salvatore Tedesco
Un uomo grigio, calvo, impeccabilmente celato nel suo abito scuro, il colletto alto e il grosso nodo della cravatta: immaginiamo riproporsi, adesso curva, ammutolita, la figura del borghese di George Grosz, immaginiamolo muoversi in un mondo fattosi definitivamente estraneo, in un mondo in cui gli spazi, benché meticolosamente definiti, siano ormai incapaci di espressione, incapaci di accompagnare una qualsiasi “ricerca di senso”. Immaginiamo uno sguardo che si apra su questi spazi, che per un verso ne registri senza illusioni geometrie e paradossi, per l’altro riconosca la desolazione in cui si aggira come effetto, residuo del proprio agire, esito della propria stessa storia. In questo spazio – lo spazio notturno della ricerca pittorica di Renato Tosini – possono prodursi, tanto più numerosi quanto più accidentali, piccoli gesti, piccole memorie: le mani, accostate dietro la schiena mentre si osserva un paesaggio industriale di cui sfugge l’uso e la profondità, reggono un aquilone, dai colori irrimediabilmente illividiti eppure completo dei suoi nastrini e del suo rocchetto, per un gioco, un volo che appare più che mai improbabile (L’aquilone, 1978); oppure, sotto un orizzonte grigio, gravato dai gas delle ciminiere, in un campo in cui si moltiplicano figure di pietra, sguardi umani, teste e volti cui è stata tolta la parola, il nostro uomo regge in un vaso una piantina, circondandola col braccio, col cappello, col proprio capo piegato (L’ultima piantina, 1977).
L’universo figurativo di Renato Tosini è l’oggetto dell’ultima narrazione filmica di Nosrat Panahi Nejad, l’esito più recente di un paziente attraversamento della storia moderna dell’immagine in Sicilia colta attraverso alcune figure emblematiche ma volutamente “marginali”, da Nicola Scafidi, a Bronzetti, indietro sino alla “Loggia fotografica Seffer”. Senza poi dimenticare il lavoro svolto su alcune figure della letteratura siciliana, a partire dai luoghi di Bufalino. Ulteriore, essenziale snodo di questa ricerca, il lavoro attorno ad Antonio Pizzuto; oggetto, quest’ultimo, di innumerevoli lavori fotografici di Nosrat, e soprattutto di una lunga video-intervista alla figlia, la poetessa Maria Pizzuto – un lavoro a metà strada fra documentario e invenzione narrativa su luoghi, libri, volti. Oggi, rapportandosi alla pittura di Renato Tosini, il discorso filmico di Nosrat guadagna, all’interno del proprio estremo e a volte rarefatto rigore formale, una dimensione forse inattesa, una singolare libertà: l’immagine filmica acquista un respiro ampio, eloquente, scorgendo la propria fondamentale radice stilistica nelle movenze, nei toni di un dialogo umanistico con le ragioni della pittura. Una delicatezza e un ritegno estremi guidano l’occhio della macchina da presa incontro al pittore e fra gli spazi del suo studio, e quando finalmente, dopo alcuni brevi minuti di silenzio, ha inizio il vero e proprio dialogo verbale fra il pittore e il suo intervistatore, comprendiamo che frattanto è su un altro piano, su quello stesso dell’immagine, che Nosrat sta costruendo un più difficile, più delicato dialogo. Vediamo Renato Tosini che parla, poi la sua immagine trasmessa da un video, e dunque fatta oggetto di una ripresa di secondo grado, attraversata dai riflessi dell’ambiente circostante, interrotta e circondata dalle immagini del personale inventario immaginativo di Nosrat, e poi di nuovo capace di emergere in solitudine. Senza rinunciare a fornire una documentazione quanto mai ampia sui modi, i caratteri, i temi, le fasi della pittura di Tosini, le immagini di Nosrat si propongono come riflessione critica e come ricreazione poetica, riecheggiamento ed emulazione di quella fondamentale teatralità, di quel tenore letterario che Tosini rivendica alla propria pittura, e al tempo stesso esplicitazione e verifica dei possibili percorsi dell’immagine, di quelle linee di tensione in cui si costruisce il senso delle immagini.
Partire con il sogno
di
Salvo Ferlito
La nostalgia è il sentimento ricorrente in chi avverte la perdita di un’armonia pregressa. Un sentimento che Renato Tosini conosce assai bene, avendone fatto la forza propulsiva del proprio fare artistico. Il suo spleen elegante e raffinato nasce infatti da quell’intimo rovello che si nutre dell’acre ubbia d’aver perso non soltanto “ quel che è stato”, ma ancor di più “tutto quel che non è stato (e che avrebbe ben potuto essere)”. Una sorta di elegiaco panta rei – per dirla con Eraclito – però inteso come impossibilità assoluta “di re immergersi in un fiume” nel quale in piùm di un caso “ non ci si era mai bagnati”. Sarà forse per questo, che nei suoi ultimi dipinti quel metodico proceder “per levare” pare essersi ormai spinto alle estreme conseguenze, riducendo il colore a un’essenza diafana e leggera, liquidamente trasparente nella sua resa rarefatta ed atmosferica. Una pittura quasi fantasmatica, quindi ma non per questo afasica; anzi ancor più penetrante, ad onta d’un eloquio assai sommesso e tutt’altro che gridato. Personaggi e situazioni sono in fondo quelli di sempre, ma è il tono delle “storie” – Tosini ama definirsi uno “ scrittore di quadri” – ad apparire più introflesso e melanconico. I soliti borghesi pingui e calvi – senza dubbio una proiezione soggettiva dell’autore, nonché sua indiscussa e peculiare cifra stilistica – elegantemente abbigliati con grisaglia d’ordinanza e ossessivamente seriali nelle loro uniformità somatica, sembrano infatti essersi spogliati delle armi reattive dell’attonito stupore e della stridente regressione nel mondo dell’infanzia, quasi avessero ceduto a un delirio solipsistico, testimone della resa all’urto del reale. Non sono più i balocchi – barchette a vela, aquiloni, trottole e tricicli – dunque, a fare da ironico e surreale contrappeso alle mostruosità del mondo circostante (alla cui edificazione però si è dato un decisivo contributo , ma una bottiglia di liquore in cui annegarsi rievocando le atmosfere de L’assenzio di Degas. Il bambino troppo cresciuto (o più propriamente mai cresciuto), raffigurato abilmente da Tosini, si è infine dissolto in un adulto disperso nella plumbea solitudine metropolitana o inanemente ripiegato a vergare sulla sabbia effimere parole destinate alla cancellazione. E pur tuttavia, la poetica sottesa a quest’ultimi dipinti è la stessa di quelli precedenti. Lo sbiadimento coloristico e la riduzione degli abituali riferimenti architettonici (quell’edilizia leviatanica e incombente eletta ad incarnare l’orrore della contemporaneità) non negano infatti in alcun modo l’abituale e pungente vena d’ironia; piuttosto ne amplificano quell’amaro retrogusto in cui risiede la grandezza narrativa di Tosini. La ricorrente presenza dell’elemento acquoso, a legare simbolicamente le opere di ieri e quelle odierne, conferma l’assenza di cesure e delinea la naturale evoluzione del linguaggio dell’autore. Quello del mare quale eu-topos, ideale luogo d’ogni vera libertà, ove intraprendere il “viaggio” che potrebbe riscattare dal giogo esistenziale, è per tanto un comune filo conduttore dell’intera produzione di Renato. Ma le barche, oggi come ieri, rimangono alla fonda o arenate sulla spiaggia. Il “viaggio” è ancora rimandato a un domani indefinito; poiché Partire si può solo con il sogno e la vita – pare ricordarci Tosini – si finisce col trascorrerla come asini alla macina, sottomessi a un ineffabile (e in fondo comodo) non sense.
SCHEDA
TITOLO: Renato Tosini Il pittore, la negazione della sicilitudine.
Di: Nosrat Panahi Nejad
FOTOGRAFIA, AUDIO, MONTAGGIO: Nosrat Panahi Nejad
DURATA: 52 minuti
PRODUZIONE: Luisa Mazzei-Nosrat Panahi Nejad